lunedì 2 novembre 2020

FEMINA ACCABADORA tra leggenda e realtà


Con il termine sardo femina accabadora, oppure femina agabbadòra, comunemente accabadora (s'accabadóra, letteralmente "colei che finisce", deriva dal sardo s'acabbu, "la fine") si soleva indicare una donna che uccideva persone anziane in condizioni di malattia tali da portare i familiari, o la stessa vittima, a richiederne l'eutanasia. Il fenomeno avrebbe riguardato alcune zone della Sardegna come Marghine, Planargia e Gallura. S’aggabadora, la chiamano anche i barbaricini. Si racconta che la accabadora veniva convocata anche in occasione della nascita di bambini colpiti da gravissime malformazioni.

N
ella Sardegna di quegli anni il nero era il colore che caratterizzava la vedovanza e i lutti familiari in generale. Si indossava perennemente, sino alla morte, in senso di profondo rispetto per il defunto. La Aggabadora vestiva di nero perché probabilmente persona in la con gli anni. Rimane comunque l’espressione di una civiltà, quella nuragica, fondata sul matriarcato e dunque sul ruolo della donna nella famiglia. Fa riflettere come questo ruolo venisse affidato ad una donna, forse proprio perché chi da la vita aveva l'approvazione per toglierla!



La pratica non doveva essere retribuita dai parenti dell'anziano poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi e della superstizione. 

C’era un tempo in cui la gente di uno stesso paese si conosceva per soprannome, un tempo nel quale la morte non era fatto di stato, un tempo in cui le strade al crepuscolo, poteva succedere venissero attraversate da piccole donnicciole che è d’obbligo immaginare vestite di nero. Non foss’altro per il loro tentativo di passare inosservate. Qualcuno le chiamava sacerdotesse della morte, altri donne esperte. C’era chi le chiamava più sbrigativamente Accabadoras. Il termine è pregno di una sonorità tutta spagnola, e mai nessun altro sarà tanto evocativo. Degradazione di acabar, queste donne che l’immaginario racconta d’età avanzata, “accabavano” appunto, ponevano la parola fine alla vita degli agonizzanti, che stentavano nell’abbandonarla.

«La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico (…) ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle».

Michela Murgia - Accabadora - ed. Einaudi, 2009 (vincitore nel 2010 del Premio Campiello)





IL MARTELLO DELLA FEMINA AGABBADORA
(testo di Isabella Dalla Vecchia)


Sardegna - Luras, Gallura , Sassari - Museo Galluras - Questo martello veniva usato dalle Femine Agabbadore, donne che avevano il compito di finire un malato terminale, attivando così una sorta di antica eutanasia. La donna veniva chiamata dalla stessa famiglia dello sventurato, ma solo quando risultava inguaribile e in preda a sofferenze atroci. Era un'oscura donna, a volte residente nello stesso paese, che si occupava di questa macabra pratica, mestiere considerato positivo perché sapeva portare il sollievo, laddove medico e preghiere fallivano miseramente. Erano vestite di nero e indossavano un mantello, una macabra coincidenza le fa "somigliare" alla Morte, e quando ne vedevi una, in effetti qualcuno doveva morire.

Questo è un oggetto incredibile, l'ultimo ad oggi rimasto in tutta la regione, fatto che rende il museo Galluras unico in Sardegna.

Sul letto della fine dell’800, impreziosito da testate di ferro battuto, è presente un sacchetto nero di velluto che contiene il martello della "Femina Agabbadora". Occorre sciogliere il nodo lentamente e con cura, perché ciò che viene estratto non solo porta in sé un importante peso fisico, ma anche morale. Il martello molto pesante è di legno stagionato d’olivastro lungo 42 centimetri e largo 24 con manico corto che permette di impugnarlo con sicurezza per facilitarne la mira affinché si potesse dare un colpo forte e sicuro. A prima vista potrebbe sembrare un normalissimo utensile, ma così non è perché veniva usato dalle “Femine Agabbadore”, donne che avevano il compito di “finire” un malato terminale, attivando così una sorta di antica eutanasia. La donna veniva chiamata dalla stessa famiglia dello sventurato, ma solo quando risultava inguaribile e in preda a sofferenze atroci. Era un'oscura donna, a volte residente nello stesso paese, che si occupava di questa macabra pratica, mestiere considerato “positivo” perché sapeva portare il “sollievo”, laddove medico e preghiere fallivano miseramente. Erano vestite di nero e indossavano un mantello, una macabra coincidenza le fa "somigliare" alla Morte, e quando ne vedevi una, in effetti qualcuno doveva morire.

Vi era un preciso rituale da seguire quando una famiglia con un malato grave prendeva la terribile decisione di chiamare la Femina Agabbadora. In primo luogo veniva posto sotto il cuscino un piccolo giogo per tre giorni e tre notti. Era il primo passo del rituale ”magico” con il quale si spingeva il moribondo a “tornare alla vita”, visto che l'esistenza di ogni essere umano era incentrato sul lavoro dei campi. Se il malato continuava a soffrire allora si procedeva con una confessione in famiglia, l’AMMENTU, gli si rammentavano all'orecchio i propri peccati (anche quelli dimenticati!) per pentirsene prima dell’ultimo respiro. Capitava che o il malcapitato moriva sotto il peso psicologico di questi ricordi negativi, ma capitava a volte che si riprendeva per il timore di finire all’inferno e per la voglia di rivalsa. Si ritornava in sé per una sorta di desiderio di espiazione e per rincorrere una seconda possibilità. E a volte funzionava! Se non si osservavano miglioramenti, allora si tentava di innescare una forte reazione fisica, si avvolgeva il moribondo in un panno di acqua gelata tenendolo dentro ad una botte, tentando così in extremis di calmare il bollore della febbre, ma ciò facendo capitava spesso che veniva ucciso da una broncopolmonite fulminante! Insomma laddove magia, psicologia e attacco fisico non funzionavano si doveva ricorrere all’atto finale e, dopo un'importante riunione di famiglia, si decideva di convocare a malincuore l’Agabbadora. In effetti era come chiamare la Morte in persona, arrivava di notte, avvolta in un mantello nero, solo che in mano aveva il martello al posto della falce. Appoggiava lo strumento sul davanzale del malato, ma entrava dalla porta principale annunciandosi con la frase “che Dio sia qui”. Veniva accompagnata nella camera del malato, per indicare che era un volere di tutti, faceva il segno della croce e li congedava chiudendosi all'interno. Dopo aver compiuto il “suo dovere” avrebbe richiamato i parenti e avrebbe pianto il trapassato insieme a loro. Un' eutanasia di tutto rispetto, con tutte le sue regole e il suo galateo.
 

La figura della Femina Agabbadora è avvolta nell'oscurità in Sardegna, pochi ne parlano nonostante siano stati scritti dei libri. Era un mestiere duro ma necessario per una famiglia spesso povera, che lavorava intensamente per il proprio sostegno, una persona in fin di vita poteva solo portare grossi disagi e sofferenze. Una selezione naturale "aiutata" da un'organizzazione sociale che permetteva di salutare la propria persona cara, per rivederla nell'altro mondo guarita e in piena salute. Un rapporto con la morte strano, forse macabro e spaventoso, ma sicuramente più rassicurante e migliore del nostro, perché per loro la Signora Morte era quasi "una di famiglia".

Gli ultimi episodi sono più recenti di quanto si pensi, uno risale al 1952 a Orgosolo e uno proprio a Luras nel 1929. Curioso il verbale stilato dai carabinieri sull'ultima "eutanasia" in cui si giustifica la morte del malato con il fatto che “i familiari ne hanno dato il consenso”.


L'ultimo martello della femina agabbadora


Vittorio Angius, un sacerdote che sembra essere il primo studioso che indagò seriamente su l'esistenza e sull’attività delle Accabadoras scrive:

«Col vocabolo "accabadoras" si vorrebbe significare certe donnicciole che troncassero l’agonia di un moribondo e abbreviassero le pene di una morte stentata dando loro con un corto mazzero (sa mazzucca) tosto che sembrasse vana ogni speranza.»

(Dizionario geografico, storico, artistico degli stati di S. M. il re di Sardegna, Torino 1833)




Comunemente si riteneva che un’agonia troppo lunga e straziante toccasse a chi aveva commesso azioni particolarmente riprovevoli che non erano state espiate al momento giusto, e quindi si dovevano espiare al momento della morte con una prolungata agonia che era l’unica punizione adeguata.
Era appunto in questi casi che si richiedeva l’intervento dell’Accabadora la quale traghettava velocemente il malato all’altro mondo, usando magistralmente un martelletto ("su mazzolu") con il quale colpiva le parti vitali, oppure passando sulla cervice del moribondo un giogo di piccole dimensioni. 

Un esemplare di mazzolu, forse l’unico esistente ancora, è esposto nel museo etnografico di Luras, ed è frutto della paziente ricerca di Pier Giacomo Pala, il quale racconta:

«Era il 1981, l’Accabadora lo aveva nascosto in un muretto a secco vicino a un vecchio stazzo che una volta era stato la sua casa. Un vecchio mi aveva parlato di quella donna, ma non ne ricordava il nome. Allora io ho fatto tutte le ricerche possibili… e alla fine ho capito di chi si trattava.»






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Link correlati (da miei blog)

La definizione odierna di un particolare modo di sorridere, quello di avere il viso atteggiato a Riso Sardonico, sta ad indicare un modo forzato di apparire sorridenti, mentre in realtà è solo finzione. Questa definizione affonda la sua origine nei secoli e nei millenni, quando riso sardonico, indicava ben altro. L'aggettivo sardonico, riferito ad una particolare postura del viso, era da loro accostato proprio alla Sardegna, considerata abitata da un popolo barbaro.
Fiat Lux! ("Sia luce!", Gen 1-3) Per la Bibbia, o almeno per il primo raccconto della Creazione, il nero ha dunque preceduto ogni altro colore.
È l'orbace che offre la materia prima al severo costume maschile degli abitanti della Sardegna. Un'artigianato tessile di uso e di rinomanza regionale.  

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